L’esorcismo di Francesco (d’Assisi)

Giotto (?) I diavoli di Arezzo. (Basilica Superiore di Assisi)
“La ‘resurrezione’ del passato consiste nel renderlo ciò che desideriamo”. (M. de Certeau, Storia e struttura). Sforzo sempre deludente nei suoi risultati, può calmare per un certo tempo le voglia di certezze ma prima o poi si torna a tentare costruzioni più solide. Per poter costruire nuove torri le antiche saranno spazzate in parte o totalmente. Questi flussi e riflussi della scrittura della storia possono osservarsi qualora si segua un tema attraverso le sue successive “resurrezioni”. Le diavolerie potrebbero servire di esempio. Come ricorda Michel de Certeau: “D’abitudine, lo straordinario circola in modo discreto sotto le nostre strade. Ma basta una crisi perché, da ogni parte, come gonfiato dalla piena, risalga dal sottosuolo, sollevi i coperchi che sigillavano le fogne e invada le cantine, poi le città.” Quando i coperti si sollevano gli uomini vengo messi a contatto con quello che è difficile da nominare. Il futuro si fa incerto, di questo noi sappiamo qualcosa, un senso di vuoto ci invade, mentre si costruiscono sentieri che ancora non vediamo, smarriamo le strade maestre. Siamo tutti toccati, prima o poi, da forme di estraneità, posseduti da certe inquietudini che vorremo esorcizzare. Il tempo della possessione sembra lontano. Nondimeno allo storico gli si chiede di addomesticare un passato che è perturbante. Così, per esempio, certe formule per cacciar via gli spiriti maligni, molto efficaci nel passato, fanno posto agli interrogatori del secolo XVII che pretendono ottenere dal padre della menzogna certe verità: “Come ti chiami? Quanti siete? Chi vi ha fatto entrare?” Agli interrogatori seguiranno lunghe sedute nelle quali si dovrà decifrare il linguaggio dei corpi convulsi più che stare dietro alla logica dei discorsi che si fanno di volta in volta più confusi e ambigui.
Rimangono desuete certe formule brevi ma che furono altamente efficaci. Formule senza convenevoli, quando ancora non erano apparse le regole di corte. 
Si racconta nei Fioretti (cap. XXIX) che frate Rufino era molto tentato dal demonio di predestinazione che gli riempiva il cuore di malinconia e tristezza e cercava di convincerlo che ogni suo sforzo per essere migliore era vano perché ormai era dannato. 
Trascinato da Francesco, il Poverello di Assisi gli insegna una formula invincibile per cacciare il demonio. Quando il tentatore si manifestasse Ruffino doveva dire al nemico: “Apri la bocca; mo’ vi ti caco”. Imparata la semplice formula Ruffino tornò a casa.
Tornasi frate Ruffino alla cella sua nella selva, e standosi con molte lagrime in orazione, eccoti venire il nemico in persona di Cristo, secondo l’apparenza di fuori, e dicegli: “O frate Ruffino, non t’ho io detto che tu non gli creda al figliuolo di Pietro Bernardoni, e che tu non ti affatichi in lagrime e in orazioni, però che tu se’ dannato? Che ti giova affligerti mentre tu se’ vivo, e poi quando tu morrai sarai dannato?”. E subitamente frate Ruffino risponde: “Apri la bocca; mo’ vi ti caco”. Di che il demonio isdegnato, immantanente si partì con tanta tempesta e commozione di pietre di monte Subasio ch’era in alto, che per grande spazio bastò il rovinio delle pietre che caddono giuso; ed era sì grande il percuotere che faceano insieme nel rotolare, che sfavillavano fuoco orribile per la valle; e al romore terribile ch’elle faceano, santo Francesco con li compagni con grande ammirazione uscirono fuori del luogo a vedere che novità fosse quella; e ancora vi si vede quella ruina grandissima di pietre. Allora frate Ruffino manifestamente s’avvide che colui era stato il demonio, il quale l’avea ingannato. E tornato a santo Francesco anche da capo, si gitta in terra e riconosce la colpa sua. Santo Francesco il riconforta con dolci parole e mandanelo tutto consolato alla cella nella quale standos’egli in orazione divotissimamente, Cristo benedetto gli apparve, e tutta l’anima sua gli riscaldò del divino amore, e disse: “Bene facesti, figliuolo che credesti a frate Francesco, però che colui che ti aveva contristato era il demonio, ma io sono Cristo tuo maestro, e per rendertene ben certo io ti do questo segnale, che mentre che tu viverai, non sentirai mai tristizia veruna né malinconia”. E detto questo, si partì Cristo, lasciandolo con tanta allegrezza e dolcezza di spirito ed allevazione di mente, che ‘l di e la notte era assorto e ratto in Dio.

Chiffonnier

“Nella sua prima fase, la ricerca scientifica assomiglia un po’ a quella dello straccivendolo che, tirando fuori della spazzatura residui di pranzi o vestiti, fa di ciò che tiene in cima al suo fagotto come il sogno di quella casa in cui non potrà mai entrare, di quei pasti e di quell’intimità che gli resteranno eternamente ignoti… In origine, lo storico non si comporta diversamente con i resti che va raccogliendo negli archivi o nei documenti.  Egli si applica a ricostruire un mondo che non avrà mai la possibilità di conoscere; è condannato perciò a restare sempre lo stesso: può trovare l’altro -il passato- soltanto attraverso la sua immaginazione… Così, anche a me capitava di trovarmi a passare in mezzo a tanti defunti, strappando loro qualche parola perduta che non sarei mai stato in grado di pronunciare. In fondo, in questi frammenti del loro linguaggio che, senza che me me accorgessi, mi comunicavano la loro irrimediabile assenza, non facevo altro che ripetere le mie stesse parole.”
(Storia e Struttura in Storia e Psicoanalisi. M. de Certeau)

Sklerocardia

G.L. Bernini, Apollo e Dafne (1622-25). Galleria Borghese, Roma
A caccia per il boschi di Michel de Certeau. Nelle letture certaliane capita di trovare una frase appuntita come uno stiletto che allo stesso tempo incanta e ferisce e la lettura non può andare avanti. “La tentation est fixation. Là où Dieu est révolutionnaire, le diable apparaît fixiste” (Michel de Certeau, La faiblesse de croire, Seuil, 1987, p. 46) Non posso che chiudere il libro, la caccia finisce.
La tentazione è l’ancoraggio, lo stabilirsi per sempre in una posizione.  Fissazione, voglia di dichiarare e di definire una volta per tutte; di stabilire i pesi e le misure, di distribuire i premi, i veleni e le vendette. Volontà di fermare il mondo, la vita inafferrabile, il divenire.
È possibile pensare nelle letture che di Lacan abbia potuto fare Certeau e che con fissazione evochi anche quel fermarsi del soggetto in un godimento infantile e perverso che innesca una compulsione a ripetere ingovernabile. La persona si fissa in un godimento che godimento non è, che racchiude un ricordo lontano, inaccessibile e fuori legge.
“La tentation est fixation. Là où Dieu est révolutionnaire, le diable apparaît fixiste”. “La tentazione è fissazione. Lì ove Dio è rivoluzionario, il diavolo appare fissista” Il diavolo è devoto del fissismo che, come in biologia, proclama che non c’è evoluzione possibile, che tutto è e sarà così per sempre.
Nel linguaggio neotestamentario risuona una parola che potrebbe accostarsi a questo dramma esistenziale: la sklerocardia, che normalmente è tradotta come la “durezza del cuore”. Partecipa dello stesso suffisso di “arteriosclerosi” anche si le durezze in questione sono diverse. La più conosciuta arteriosclerosi colpisce il cervello e reca una serie di disturbi alla memoria. La sklerocardia invece è ancora peggio, perché a differenza dell’arteriosclerosi cerebrale che fa passare la persona per il bagno nel fiume Lete e la porta al paese dell’oblio, dove potrebbero essere dei vantaggi, la durezza del cuore fissa la persona in certi ricordi e idee e la inchioda per sempre.
Un po’ come la povera Dafne che aveva la idea fissa di difendere la sua castità e fu perseguitata per Apollo che aveva una idea fissa opposta. Dafne si trasformò in alloro e Bernini la fissò nel marmo. Vittoria, sconfitta? Duro prezzo da pagare comunque. La leggenda iscritta sul piedistallo dell’Apollo e Dafne (Galleria Borghese, Roma) potrebbe essere intesa come un elogio al movimento pur accettando il rischio di non raccogliere sempre le dolcezze che aspettiamo. Quisquis amans sequitur fugitivae gaudia formae fronde manus implet baccas seu carpit amaras (Chiunque ami seguire la gioia dell’effimera bellezza / le mani colma di fronde o raccoglie amari frutti).

Il prete funzionario

I pastori cattolici, che si situavano sul terreno delle istituzioni ecclesiastiche, effettuano nelle pratiche una selezione analoga a quella che l’esegesi colta compie nei testi: le “superstizioni” popolari ne vengono scacciate, rimandate a un passato inconfessabile, affinché sia evitato un “discredito per la religione”. Questi uomini, in fatti, sono innanzitutto dei “chierici”. Essi si distanziano in massa dalla cultura popolare, tollerando o ignorando ciò che non possono impedire.  Diminuzione dei contatti tra i pastori e la popolazione; ritirarsi del clero in un discorso che è stato costruito nel XVII secolo come “riformista” ma che diventa il mezzo formale dei raggruppamenti sacerdotali; scomparsa quasi totale delle visite pastorali. Questi preti sono cambiati da una lenta trasformazione che tuttavia rimane segreta o marginale. Il contenuto del discorso e l’atto del parlare si pongono fuori, estranei l’uno rispetto all’altro come il testo e l’autore: quando c’è enunciazione, l’enunciato mente; quando l’enunciato dice il vero, non c’è più enunciazione.
(M. de Certeau, La scrittura della Storia, “L’ermeneutica clericale”)

(Ridicule, 1996. Patrice Lecomte)

Luder

“Nella notte, una notte sola, il dio inferiore (Ariman) apparve… La sua parola echeggiava dinanzi alle finestre della mia camera da letto come una potente voce di basso… Ciò che veniva detto suonava in un modo che non era affatto amichevole; tutto sembrava architettato per incutermi timore e trepidazione e la parola essere immondo [Luder] si fece udire spesso, espressione assai frequente nella lingua fondamentale, allorché si trattava di far sentire la potenza e la collera di Dio all’uomo che Egli intendeva annientare. Ma tutto ciò che veniva detto era sincero, nessuna frase imparata a memoria… Così l’impressione che dominava essenzialmente in me non era la paura, ma l’ammirazione dinanzi alla grandiosità e al sublime; perciò, nonostante gli insulti presenti nelle parole, l’effetto che produssero sui miei nervi fu benefico…”. (P. Schreber, Denkwürdigkeiten. )

Come ricorda François Dosse nella sua biografia di Michel de Certeau, la pazzia che inonda Paul Schreber ha come asse la parola luder che ha un ampio campo semantico che va da “puttana” a “carogna”, passando per “scapestrato”, “poveraccio”, “mascalzone”. Non si tratta solo della pazzia di Schreber nello sforzo di dare un significato e una traduzione alla voce divina che così lo nominava. Il significato di luder, come lo ricorda lo stesso Certeau, “esprime la condizione e l’efetto del credere alla parola allorché ció funziona como identificazione o salvezza. Non si tratta tuttavia di un caso speciale di follia. Si tratta di una follia ‘generale’. Essa appartiene a qualunque istituzione che garantisca un linguaggio di senso, di diritto o di verità.” (M. de Certeau, Storia e psicoanalisi, p. 198)