“Ogni narrazione che racconti “ciò che accade” (o è accaduto) istituisce il reale, nella misura in cui si fa passare per rappresentazione di una realtà (passata). Essa trae la propria autorità dal fatto di spacciarsi per testimone di ciò che è, o di ciò che è stato. Ogni autorità si fonda infatti sul reale che si presume essa sia in grado di affermare. La storiografia assume questo potere nella misura in cui presenta e interpreta dei “fatti”.
Eppure il “reale” rappresentato non corrisponde al reale che determina la sua rappresentazione. Esso nasconde, dietro la figura di un passato, un presente che l’organizza. La rappresentazione cela la prassi che l’organizza.
Indubbiamente, una simile rappresentazione storica svolge un ruolo necessario all’interno di una società o di un gruppo: quello di realizzare delle suture tra passato e presente. Essa garantisce un “senso” che si pone al di sopra delle violenze e delle divisione del tempo, dando vita a uno scenario di riferimenti e di valori comuni che assicurano al gruppo un’unità e una comunicazione simbolica.
Il racconto che parla in nome del reale ha il carattere di un’ingiunzione. Ma, enunciando ciò che si deve pensare e ciò che bisogna fare, questo discorso dogmatico non sente alcun bisogno di giustificarsi, dal momento che parla in nome del reale. Gli organi di informazione dichiarano:”Nelle strade c’è l’anarchia, il crimine è alla porta!”, e l’opinione pubblica immediatamente impugna le armi e alza le barricate. Gli organi d’informazione aggiungono:”I criminali sono stranieri, ci sono le prove”, e l’opinione pubblica va alla ricerca dei colpevoli, fa scattare le denunce e la condanna a morte o l’espulsione.”
(Michel de Certeau, Storia e Psicoanalisi. Tra scienza e finzione)